mercoledì 13 aprile 2011

Diario dalla Tunisia


Una breccia nel muro del Mediterraneo
L’ultima visione tunisina è l’aeroporto vuoto, nessuno parte e nessuno torna. La stagione turistica sarà una catastrofe, tutte le prenotazioni per pasqua sono state cancellate e per l’estate non si prevede nulla di buono. Per ora non si fermano nemmeno più le crociere. E’ probabile che finché non finirà l’allarme immigrazione clandestina l’industria del turismo in Tunisia non riuscirà a riprendersi, eppure visto da questa sponda del Mediterraneo l’allarme invasione ha tutt’altre sfumature. Al confine tra Libia e Tunisia sono passate più o meno 200.000 persone ed ogni giorno aumentano, in Italia non entrano più di 350.000 immigrati all’anno, mentre negli ultimi anni cresce esponenzialmente  il numero di emigrati italiani (nel 2010 più di 66.000). In ogni caso è vero che le barche continuano a partire dalle coste tunisine, piene di giovani che scappano dalla disoccupazione   e dalle ingiustizie, giovani che non riescono a provare fiducia ne loro paese perché Ben Ali sembrava averla cancellata per sempre. 
Nel frattempo noi in un’ora e dieci siamo di nuovo a Roma, mentre c’è chi muore nel Mediterraneo per raggiungere il nostro paese. Dopo dodici ore di sonno, sono rimasta bloccata nel traffico, e chiaramente sono arrivata all’università in ritardo, devo ancora scrivere la tesi e mi assalgono le ansie sul cosa fare dopo. L’Italia, insomma, continua a scorrere nella sua routine, tra dichiarazioni e smentite di Berlusconi e dei suoi ministri.
LA RIVOLUZIONE
Siamo partiti con le nostre convinzioni di uomini e donne occidentali, ci siamo trovati di fronte persone che sono stufe di essere costrette a prendere noi come punto di riferimento obbligato. I tunisini hanno alzato la testa, è stato evidente fin dal primo giorno, fin dalla prima assemblea organizzata con gli studenti.  Dali, Jouad, Mohammed e tutti i giovani tunisini stanno mettendo in gioco la loro vita, questo fermento, questa continua discussione, questa voglia di spiegarci il loro punto di vista e quello che hanno fatto e continuano a fare per il loro paese mi ha profondamente affascinato.
Nonostante tutte le divisioni che abbiamo incontrato su alcuni punti si sono trovati praticamente tutti d’accordo: in primis tutti i tunisini definiscono la cacciata di Ben Ali come una rivoluzione, che non si è fermata, e che per molti non si deve assolutamente fermare, alle dimissioni del despota, bisogna costruire un nuovo sistema di governo che non sia fondato sulla corruzione, sull’oppressione e sulla repressione. La rivoluzione è stata spontanea ed ha sorpreso tutti, ma è stata costruita dalle lunghe lotte degli anni precedenti, in particolare lo sciopero dei minatori nel 2008,  quindi è stato un movimento spontaneo ma con delle radici profonde. Dai diplomati disoccupati alle donne democratiche, dai membri del sindacato al gruppo di street artist tutti hanno sottolineato come questo sia un processo rivoluzionario ancora aperto, è ora il momento più difficile, quello degli scontri più aspri, dove la nuova Tunisia sarà plasmata. Le prime manifestazioni sono cominciate nell’entroterra, nelle regioni più povere, dove si lottava soprattutto contro la disoccupazione e le condizioni di lavoro, poi la lotta si è allargata veramente a tutto il paese, quando è arrivata a Tunisi la parola d’ordine era già diventata: degage! Ben Ali è scappato ma la disoccupazione, le precarie condizioni di lavoro, la mancanza di prospettive per le giovani generazioni, la corruzione, il malaffare sono rimasti, ma ora c’è la possibilità di poterli affrontare attraverso una partecipazione larga. Ci sono ancora tantissimi scioperi e proteste nella fabbriche e per la strade, la questione del rapporto tra religione e stato sta diventando una questione centrale ora che la formazione dei partiti è libera. In questi mesi i tunisini dovranno avere la forza di definire un nuovo stato e una nuova economia, le tante persone che abbiamo incontrato e ascoltato ci hanno dato l’impressione di essere pronti a lottare ancora perché la Tunisia sia più democratica, più libera, più equa.
Questo piccolo paese ha dimostrato un grande forza, così grande che è stato capace di incendiare tutto il mondo arabo, di dare la forza agli egiziani, agli yemeniti, ai siriani, ai libici di lottare contro le tirannie, le dittature e l’oppressione. Ma è evidente che molto ancora deve accadere e che nulla è scontato.
IL PONTE SUL MEDITERRANEO
Costruire un ponte tra paesi diversi, culture diverse, diversi modi di leggere il mondo e la realtà non è mai facile, ma la Tunisia ci ha insegnato che bisogna avere la forza, il coraggio, l’audacia di essere all’altezza del proprio tempo. Questi uomini e queste donne hanno ora in mano il loro futuro e quello del loro paese e ne hanno la piena consapevolezza.
Queste giornate ci hanno permesso di incrociare i volti dei migranti al confine in fuga dalla guerra, di incontrare le parole dei giovani medici volontari, di ascoltare la protezione civile e la mezza luna rossa, di confrontarci con gli studenti tunisini, di incontrare il sindacato, di parlare con le donne e le studentesse. Sguardi, parole, sorrisi.
Non so se ci sia qualcuno dietro tutto questo, forse l’esercito, i poteri economici, le grandi multinazionali, gli Stati Uniti…nella storia però bisogna prendere in consiederazione anche i soggetti, gli attori, le persone: i tunisini e le tunisine che sono scese in piazza e che hanno cambiato la loro vita.
E’ un processo aperto e ancora contrastante, ma la nostra carovana si è sentita completamente parte di questo processo, come ci ha detto Fathi, sindacalista del UGTT,«siete venuti in tanti poco dopo le settimane della rivolta, siete stati coraggiosi, essere qui e adesso significa essere parte di tutto questo».
Ci siamo sentiti parte di questa rivolta e speriamo di portare con noi la voglia di libertà, diritti e democrazia, mentre in Europa le frontiere si irrigidiscono e i confini diventano muri, noi abbiamo provato a costruire nuovi ponti e nuove relazioni.
IL MEETING EUROMEDITERRANEO
Lascio i miei compagni  e le mie compagne di viaggio, mi dispiace salutarli e salutare con loro questo paese dove tira un vento di passione. Ma sappiamo che alcuni dei tunisini conosciuti li rincontreremo a Roma al meeting euromediterraneo del 12 e 13 maggio alla Sapienza, perchè la Tunisia ci ha insegnato che l’Europa è grande e il Mediterraneo deve tornare ad essere un mare di unione e di incontro, non di morte e restrizione.
Allora saluto la Tunisia e i nostri nuovi amici, pensando alle nuove relazione e convergenze trovate, a volte anche con difficoltà e penso che la libertà la si possa conquistare solo uniti.

Carovana Uniti Per La Libertà

martedì 12 aprile 2011


La lotta delle donne/2
Girando per questa città ancora si vede tanta polizia, molti luoghi sono ancora presidiati dall’esercito e circondati dal filo spinato. Gira ancora tanta polizia politica e di notte ci sono ronde notturne di poliziotti, non a caso questo corpo dell’arma è tra più odiati dai tunisini, proprio perché rappresenta uno dei retaggi del vecchio regime. 
Oggi è il giorno della nostra partenza, tutte le medicine sono arrivate al campo profughi, dall’Italia arrivano gli echi delle solite polemiche istituzionali, mentre l’Europa intima alla Tunisia di accettare i rimpatri, la Tunisia al suo confine sta accogliendo migliaia di persone senza aver mai gridato all’invasione. Un così piccolo paese, pieno di contraddizioni, ancora molto instabile e intento a costruire la sua strada verso la democrazia, ha deciso di non chiudere le sue frontiere, e divenire un luogo di accoglienza e speranza. Oggi  ritorniamo a parlare alla sede dell’associazione delle donne democratiche tunisine, Nadia, la direttrice esecutiva, non smette mai di lavorare, da quando è cominciata la rivoluzione, ci dice,l’associazione lavora a porte aperte, durante i giorni della rivolta è stata un rifugio, oggi è un punto di riferimento per tutti coloro che stanno costruendo la nuova Tunisia.
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L’obiettivo per loro non è cambiato: l’uguaglianza di possibilità e diritti tra uomini e donne, contro ogni visione retrograda della società. Oggi si apre una possibilità per le donne in Tunisia guadagnare più diritti, più libertà, più autonomia ma  c’è anche la possibilità inversa, e cioè che alle donne vengano chiusi spazi, tolti diritti e diminuita l’autonomia. Ben Ali se n’è andato, ma il suo sistema di potere è ancora funzionante, intanto le prigioni sono state aperte e i prigionieri politici possono ritornare finalmente in Tunisia dopo decenni,  tra di loro ci sono tanti islamisti moderati o meno, perseguitati durante il regime. Uno dei partiti di riferimento è Ennahda, il suo leader – Rached Ghannouchi – è tornato da poco in Tunisia, accolto da una grande folla in festa. Questa forza politica accetta le regole del codice di famiglia tunisino, ma ciò che preoccupa non sono le sue parole ma i fatti: le prime preghiere fatte nelle strade, le donne aggredite durante le manifestazioni, le prima grida contro la partecipazione femminile al processo democratico. Per Nadia è inconcepibile come le stesse donne islamiste tunisine non abbiano alcuna rivendicazione specifica sul ruolo della donna, per loro la donna deve essere pensata solo all’interno dei precetti dell’islam. Ma Nadia e le sue compagne non si lasciano certo intimorire, come non avevano paura durante il periodo di Ben Ali non hanno alcun timore nemmeno ora. Per loro un confronto politico plurale è una cosa nuova, ma nessuna gruppi, associazione o partito può pensare di prescindere dai diritti delle donne. Le donne democratiche hanno costruito una cellula di vigilanza sulla transizione, incontrano tutti i comitati di difesa della rivoluzione, hanno iniziato un’inchiesta di verità sui giorni della rivolta, hanno aperto un centro d’ascolto per la popolazione sui fatti della rivoluzione a Tela, città dell’entroterra. Sono parte attiva di questo processo rivoluzionario e sono disposte solo ad andare avanti. Qui in Tunisia non si può più tornare indietro.
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Rimangono centrali le loro campagne storiche: contro la violenza, per la parità dei diritti, per la parità nelle leggi riguardanti l’eredità. Avrei voluto continuare a fare tante domande a Nadia, ma sono stata trascinata via per non perdere il volo di ritorno. Camminiamo veloci verso l’albergo e mi guardo intorno: Tunisi è un crogiuolo  di diversità, donne velate e coperte a braccetto con ragazze scollate e capelli al vento, coppie mano nella mano accanto a gruppi strettamente di soli uomini, mamme velate e figlie con jeans attillati, bar dove si beve e si fuma e ristoranti dove è assolutamente vietato. Religione e laicità si intrecciano e scontrano tra queste vie, insieme al dibattito sulla legge elettorale, la nuova costituzione e i primi processi contro esponenti del regime. Una cosa è certa la Tunisia ha scelto la strada del cambiamento e ha insegnato a tutto il mondo arabo, e non solo, che abbattere un regime dal basso e in autonomia è possibile. Questi mesi e le decisioni che si prenderanno stanno veramente allontanando questo paese dal colonialismo e dalla dipendenza dall’estero, senza cadere in ristretti nazionalismi, ma parlando all’intero mondo di democrazia, diritti e libertà.

Carovana Uniti Per La Libertà

La lotta delle donne
La Tunisia è sempre più una scoperta. Oggi, dopo due giorni passati in autobus per raggiungere la frontiera, siamo tornati nella frenetica Tunisi. E’ stata una giornata densa di incontri, ma non solo per noi, è la stessa  Avenue de Bourghiba che si è trasformata in una vera e propria agorà a cielo aperto, dove si creano continuamente piccoli o grandi capannelli di persone che discutono, si confrontano, si scontrano sulle opinioni riguardo al processo rivoluzionario in atto. 
Non c’è tunisino che non si senta partecipe di questo cambiamento, ce lo spiega Cherif, diplomato disoccupato, ma ce lo ribadisce anche Mongia, attivista dell’associazione delle donne democratiche tunisine, tutti hanno contribuito alle dimissioni di Ben Ali – i disoccupati, le donne, i lavoratori in sciopero, i giovani, gli avvocati, i sindacalisti – nessuno è più disposto ad essere escluso  dalla costruzione della nuova costituzione.
Questo paese in subbuglio ti rende partecipe dei propri drammi e delle proprie speranze, basta camminare per le strade di questa città per capire che nulla è normale, che qualcosa è cambiato,  ma bisogna mettersi in gioco per rendere il proprio paese migliore. E’ una forza che ti contagia, sono sveglia dalle sette del mattino per poter incontrare tutti, non mi stanco mai di sentire i racconti sulle giornate di gennaio, su cosa accade in questi giorni, sulle diverse rivendicazioni, su punti di unione e differenza. A fine giornata, in un bellissimo caffè adornato di maioliche verdi e bianche, sorseggiando un the alla mente, incontriamo Jouad, attivista dell’università femminista. Jouad mi colpisce subito, ha la mia età e studia all’università, dove lotta per l’uguaglianza e i diritti delle donne. Nei suoi racconti mi sembra di rivivere le mie esperienze: la mia stessa ansia per il futuro, la mia stessa paura per il mondo del lavoro e la difficoltà nelle relazioni con l’altro sesso. Somiglianze e divergenze di vite vissute sulle due sponde del mediterraneo. Rimango incantata.
Non è solo retorica, io e Jouad ci capiamo subito, entriamo subito in sintonia, siamo due militanti e la nostra lotta per la libertà, la giustizia sociale e l’uguaglianza è comune. Ci racconta del lavoro dell’associazione: il comitato d’inchiesta sulle regioni più povere della Tunisia, il centro di ascolto aperto a Tela per le donne della rivoluzione, il lavoro di approfondimento sui diritti nella Costituzione. Dal 14 gennaio in poi non si sono mai fermate, hanno già organizzato una marcia delle donne per la dignità e l’uguaglianza, una conferenza nazionale, hanno elaborato un manifesto di richieste rivolto ai prossimi candidati politici. Il rinomato codice di famiglia  tunisino non è più sufficiente, queste ragazze vogliono di più, non hanno più intenzione di accettare ambiguità: eredità, adozione, stato di famiglia, tutela dei figli non sono negoziabili, devono essere la base oltre la quale costruire una nuova giustizia fatti di diritti e riconoscimento sociale ed economico. Per Jouad vivere sotto il regime di Ben Ali significava non respirare, vivere senza fiato, una sensazione di soffocamento continuo. Erano escluse dalla vita politica, istituzionale, culturale come giovani e come donne, schiacciate dal regime autoritario da una parte e dalle generazioni più adulte dall’altra, come se tutti avessero paura della loro presenza o anche solo esistenza. E forse  quella paura si rivelata fondata. Il regime autoritario di Ben Ali era già in bilico grazie al lavoro delle lunghe lotte, anche sotterranee, portate avanti in questi anni, ma la spinta decisiva è stata la forza propulsiva dei giovani.Durante le giornate della rivoluzione non c’erano differenze, ragazzi e ragazze hanno lottato insieme, hanno resistito insieme alle cariche e alle violenze della polizia, insieme hanno costruito una possibilità di libertà. Non c’erano differenze di sesso, di età o di scolarizzazione, la lotta era comune e l’obiettivo unico: distruggere un regime opprimente. Nessuno ci avrebbe mai creduto ma uomini e donne ci sono riusciti e Ben Ali è scappato senza lasciare traccia. Ora bisogna abbattere il suo apparato di potere, le differenze emergono,  è adesso che la lotta per le donne diventa più difficile. Ma Jouad in questo momento non sa nemmeno cosa significhi la paura, quanto è diversa questa ragazza dai luoghi comuni raccontanti sulle donne arabe, è ora che inizia la rivoluzione e la Tunisia non si vuole tirare indietro.
Ci salutiamo con Jouad, la invito a venire in Italia al meeting che a metà maggio stiamo organizzando all’università, spero che venga perché le sue parole così semplici, al di là di qualsiasi ideologia, ci fanno capire perché ancora vale mettersi in gioco e lottare per la libertà.

Carovana Uniti Per La Libertà

lunedì 11 aprile 2011


Il campo profughi di Ras - Jadir
Le giornate nella Tunisia post-Ben Ali non finiscono mai. Ieri notte siamo partiti verso il campo profughi di Ras Jadire, il viaggio è lungo sono più di seicento chilometri, tutti percorsi in pullman  lungo strade che diventano sempre più desertiche. Non è stato facile arrivare al confine tra Libia e Tunisia, ci hanno fermato più volte, controllato i pullman e il carico di medicine che portavamo con noi. Alla fine siamo riusciti, dopo ore e ore di viaggio, ad arrivare.
Per arrivare al confine percorriamo la strada che ora non è altro che un lungo campo profughi.
Il confine tunisino-libico  è una grande porta dove il flusso di migranti non si ferma più  da quando la guerra in Libia è cominciata, si intravedono in lontananza le bandiere verdi simbolo del regime autoritario e oppressivo di Gheddafi, coperte dalle grandi bandiere tunisine.
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Chiunque attraversi questa frontiera viene accolto in Tunisia, il primo campo è di transito, si viene identificati e per chi ha bisogno c’è un punto di primo soccorso ben organizzato. Qui abbiamo parlato con i medici che stanno prestando servizio volontario: Benchir ci racconta che lui e i suoi amici non vivono lontano da qui e sono venuti per aiutare, per accogliere, per dare una mano per quanto possibile. Benchir e i suoi amici sono medici o infermieri, stanno finendo di studiare, o sono in cerca di lavoro, si sentono non solo protagonisti della rivoluzione tunisina, ma di un grande movimento ancora più largo che si sta diffondendo in tutti i paesi arabi. Non parlano di un vecchio panarabismo di stampo nasseriano antioccidentale, il loro è un sentimento condiviso che li accomuna a tutti coloro che stanno lottando per la libertà nei loro paesi. E’ la lotta contro la dittatura, per l’indipendenza, per una democrazia reale e per condizioni di vita migliori che li fa sentire parte di una stessa lotta. Ci sono ragazzi e ragazze che lavorano qui come volontari da quando il campo profughi è stato istituito, non è facile, sentono i bombardamenti e gli spari sempre più vicini, hanno paura delle possibili ritorsioni delle armate libiche, ma restano qui, per la Tunisia, per i profughi che passano, per la loro rivoluzione e per loro stessi. Questi dottori volontari oggi ci hanno  veramente fatto capire cosa significa accoglienza, mentre noi abbiamo negli occhi le immagini di Lampedusa, dove i migranti sono stati lasciati senza coperte, senza cibo, senza tende, loro che vengono dalle regioni più povere della Tunisia sono qui ad aiutare chi è più povero di loro,mentre noi abbiamo solo paura di perdere le nostre rendite di posizione.
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(Donne somale appena arrivate in Tunisia dalla Libia)

Poco dopo ci siamo spostati nel campo profughi gestito dalla Mezza Luna Rossa,  un campo che ha ospitato nei giorni più alti di crisi fino a 18.000 persone di ottanta nazionalità diverse, dal Bangladesh al Ghana, dal Costa d’Avorio al Ciad, ma soprattutto eritrei e somali. Tanti vogliano tornare a casa nel loro paese, ma non sanno come fare e aspettano che le organizzazioni internazionali organizzino i voli per i rimpatri volontari, altri invece non possono assolutamente tornare nei loro paesi martoriati dalla guerra e non sanno dove andare. Aspettano chi da giorni, chi già da mesi, ma non sanno bene cosa fare, fuggono da persecuzioni, dalla povertà, dalla guerra, dai bombardamenti in Libia, gli abbiamo chiesto dove vorrebbero andare e cosa vorrebbero fare, la risposta è molto semplice: vorremmo solo vivere in un paese in pace senza dover più scappare, senza dovere più fuggire, costruendo la nostra vita e mettendo radici in un paese che ci accolga. Eppure oggi nessuno è più disposto ad ospitare queste persone, che invece ci hanno accolto con un sorriso, pronti a raccontarci le loro storie fatte di sofferenze e di speranze, e per ora sono felici di poter stare qui in questo campo in Tunisia, anche se in condizioni molto precarie, perché questo piccolo paese gli ha permesso di sfuggire dalla guerra e dalle torture dell’esercito libico.
Riprendiamo gli autobus, la carovana continua, con gli occhi pieni di storie, torniamo a Tunisi, felici nonostante la fatica di essere venuti fino a qui ad intrecciare anche solo per un attimo queste le nostre vite con le loro. 

Carovana Uniti Per La Libertà

domenica 10 aprile 2011

Verso il campo profughi ai confini con la Libia
La giornata è stata lunga. Tunisi è lontana dal confine libico, seicento  chilometri dove si alternano terreni coltivati con olivi a terre semi-desertiche. Oggi abbiamo riattraversato con i pullman quei luoghi dimenticati per decenni dal potere centrale e dai media internazionali. E’ stata la città di Sid Bou Zid a risvegliare il cuore della Tunisia, tutte le regioni, tutte le città e tutti i villaggi si sono sentiti partecipi della rivolta di gennaio. Mohamed di Argeb, piccola città dell’entroterra , lo  abbiamo conosciuto il primo giorno e domani si sveglierà alle sei del mattino per venirci a raccontare la loro lotta che non è finita con il 14 gennaio. Per Mohamed, laureato in matematica e disoccupato, è importante parlare con noi; ci spiegherà del lungo sciopero che stanno portando avanti contro la disoccupazione e per la giustizia sociale. Per noi è importante costruire e mantenere questa relazione. 
Ci stanno insegnando la caparbietà, la voglia di desiderare e quindi di lottare per una vita migliore, la dignità di portare avanti con gioia e ostinazione la rivoluzione delle loro vite e della Tunisia intera. Si respira aria di cambiamento e di voglia di fare in queste strade sabbiose della Tunisia dimenticate dal mainstream, si è risvegliata nei tunisini l’idea di poter finalmente prendere in mano la loro vita e non intendono farsi sfuggire questa opportunità che hanno costruito giorno dopo giorno, anche con il sangue di quelli che qui vengono chiamati i martiri della rivoluzione. Siamo ancora in pullman e lo saremo per tutta la giornata, mi vengono in mente i volti delle donne somale ed eritree incontrate nel campo.  A loro non sarebbe mai permesso di spostarsi come facciamo noi, loro non possono muoversi, devono rischiare la vita per spostarsi e in continuazione vengono cacciati o devono sfuggire dalla guerra e dalla fame. Per tanti ragazzi che affollano il quarto campo, quello più grande al confine con la Libia, avere dei documenti che ti permettono di spostarti liberamente tra Africa ed Europa è un miraggio, non riescono neanche a capire fino in fondo che cosa significa. Loro che per venire in Italia rischiano la vita su quel tratto di mare del Mediterraneo ormai maledetto.
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Nella carovana  continuano a girare i numeri che ci ha fornito la Protezione Civile tunisina: più di 200.000 persone hanno attraversato il confine, quasi 160.000 sono state accolte nei campi allestiti in pochi giorni sulla frontiera, dove si riesce ad accogliere in modo dignitoso le persone, a fornirgli un pasto e la prima assistenza medica e psicologica. Ci raccontiamo a vicenda le storie che siamo riusciti a carpire dai tanti profughi che abbiamo incontrato, in pochi minuti cercavano riassumere la complessità della loro vita ma la semplicità del mosaico che riusciamo a comporre è disarmante: lasciateci muovere liberamente, lasciateci attraversare le frontiere, lasciateci andare lontano dalla guerra e dalla sofferenza, non chiedono molto vogliono solo vivere liberi. Sappiamo che oggi tanti ragazzi ghanesi sono riusciti  a tornare a casa, la Tunisia e l’organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) con i paesi di origine organizzano i voli per i rimpatri volontari, tutto un altro modo di vedere rispetto all’accordo appena siglato con l’Italia.  Chi lavora o fa il volontario era stupito del nostro interesse per il loro lavoro, non siamo andati solo a portare delle medicine, ma per provare a capire come e perché sta accadendo tutto questo. Per un attimo ci siamo sentiti parte della stessa storia.Purtroppo l’ esercito libico continua a bloccare i migranti prima della frontiera, continuano ad arrivare persone che hanno subito torture, tanti degli africani ascoltati erano stati nelle prigioni libiche, anche se dovrebbero essere chiamati lager per migranti costruiti apposta per bloccare chi cerca di mettersi in cammino.
Domani  Zied, il responsabile della nascente associazione “volontari senza frontiere”, cercherà di recuperare il container di medicine ancora bloccate al porto, Federico con la sua telecamera cercherà di filmare i volti di questa ribellione, alcuni di noi prenderanno i primi aerei per tornare in Italia. Noi che rimaniamo continueremo a costruite questo piccolo ponte fatto di incontri, sorrisi,  relazioni e racconti. Mentre sul Al Jazeera continuano a scorrere immagini di manifestazioni, scontri e ribellioni dei tanti paesi di questa lunga e profonda primavera araba.  Solo una cosa posso pensare in questo lungo viaggio in pullman: nulla sarà più come prima.

Carovana Uniti Per La Libertà

sabato 9 aprile 2011

Incontro con gli studenti
Scendiamo dall’aereo e dalle ore 11.20 siamo in Tunisia. La prima idea che si ha della Tunisia post dittatura di Ben Ali è la confusione, non è facile stare dietro  alla frenesia di questo paese, non è semplice capire che cosa sta effettivamente accadendo.  Subito ci dividiamo tra chi deve presentare la carovana Uniti per la libertà alla stampa tunisina, chi deve controllore che tutti i medicinali per il campo profughi siano arrivati, e noi, gli studenti di UniCommon, che andiamo ad incontrare i movimenti studenteschi tunisini alla sede del sindacato UGTT. 

La Tunisia è passata da un regime  praticamente a partito unico ad una proliferazione e fermento di attività politica, sono nate più di cinquanta formazioni politiche e non si contano più i gruppi informali. Per decenni è stato impossibile parlare, discutere, riunirsi e condividere esperienze ed emozioni sulla propria vita, per tutti questi lunghi anni è stato difficile esprimere le proprie idee politiche come la propria fede religiosa. La società civile tunisina è stata silente e sopita, ma dal 17 dicembre, da quando un ambulante diplomato si è bruciato nella piazza di Sid Bou Zid per protesta, le contraddizioni sono scoppiate e da quel giorno non si torna più indietro. Se prima nessuno poteva e voleva parlare, ora tutti devono parlare esprimere la propria opinione, contare nella discussione pubblica, nessun o vuole più rimanere escluso e tutti vogliono raccontare il loro ruolo durante le giornate di dicembre e gennaio.
L’incontro con gli studenti tunisini è stato coinvolgente, confuso, magmatico, in poche parole esplosivo! Le lotte degli studenti, dei disoccupati, dei lavoratori hanno una lunga storia più o meno sommersa qui in Tunisia, ma la rivoluzione, così  viene chiamato il movimento che ha cacciato Ben Ali, ha sorpreso tutti, ed è andata al di là di ogni aspettativa. Nessuno si sarebbe mai immaginato di riuscirci veramente, non il sindacato, non i partiti di opposizione, non i giovani disoccupati, ma così è stato: il 14 gennaio il dittatore, che governava il paese dal 1987, è scappato senza nessun messaggio per il paese, lasciando un vuoto di potere che da quel giorno è stato difficile colmare. Inizia così la parte più difficile, la cacciata del tiranno c’è stata, ora, però, bisogna distruggere la tirannia. Le contraddizioni stanno esplodendo: la disoccupazione giovanile, la corruzione di tutte le istituzioni, la condizione delle donne, ma soprattutto in queste ultime settimane emerge il problema della relazione con la religione islamica, sia nelle sue espressioni più moderate che in quelle più radicali, vero incubo dell’occidente.
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Qui le manifestazioni si susseguono, anche oggi mentre eravamo in assemblea con gli studenti, sono arrivate le voci di duri scontri con la polizia, cominciati dopo la preghiera del venerdì, anche per l’imposizione del governo provvisorio d el divieto di pregare in piazza.Gli scontri però non sono stati tra gruppi di islamisti radicali e le forze dell’ordine, ma tra tanti giovani accorsi in piazza, credenti o meno, contro la polizia, riconosciuta ancora come il braccio armato e organizzato del vecchio potere che stenta ad andarsene. Anche un ragazzo che è intervenuto nella nostra assemblea è venuto con un segno di una manganellata sul braccio appena presa negli scontri, la gente è stanca e non è più disposta ad abbassare la testa, non è più disposta a sottostare a delle regole che non sono condivise.
Questa rivoluzione è stata fatta per la libertà, l’indipendenza, la democrazia, la giustizia sociale, ci dicono, non è la rivoluzione dei gelsomini, questi mesi hanno ridato speranza ai tunisini, tutto questo non si può semplificare in facili formule giornalistiche. La democrazia qui è una domanda reale e storica, non è formalità, non è un regolamento o una rappresentazione. I primi due governi provvisori, troppo compromessi con il regime di Ben Ali, sono stati sfiduciati dal basso, da quello che viene chiamato il movimento della Kasbah 1 e della Kasbah 2, tutti i ragazzi e le ragazze che abbiamo incontrato sono pronti a tornare in piazza se anche il terzo governo non vorrà ascoltare le loro proposte economiche, sociali e politiche. Questi ragazzi vogliono vivere e vivere meglio nel loro paese, c’è stato un non detto nella nostra assemblea di oggi, che si chiama Lampedusa, tutti loro hanno deciso di non scappare, di mettersi in gioco, di stare nelle piazze, di cambiare sé stessi e il loro paese, per far sì che dalla Tunisia non si debba fuggire. Noi abbiamo deciso di metterci in cammino, di metterci in viaggio per incontrare la nostra stessa generazione senza futuro al di là del mediterraneo, oggi ci siamo incontrati a metà strada.
Vanessa Bilancetti – Unicommon Roma

venerdì 8 aprile 2011

Diario dalla tunisia

Prima di ogni partenza c’è sempre un po’ di paura, paura di aver dimenticato qualcosa, paura del viaggio che si sta per fare, paura delle cose che non si conoscono e che non sono la nostra quotidianità. Ma questo non è un viaggio come un altro, non è l’inter-rail con lo zaino in spalla, non è il volo low cost trovato all’ultimo secondo, non è il viaggio regalato dalla mamma, non è l’esperienza di volontariato fatta per fare qualcosa di diverso. Oggi parte la carovana “Uniti per la libertà”, partiamo in sessanta tra studenti, precari e disoccupati da tutta Italia per andare in Tunisia.
In tanti studenti abbiamo deciso di partecipare alla carovana, di metterci in viaggio verso l’altra sponda del Mediterraneo, e mentre l’Europa e i suoi governi tremano per la paura delle conseguenze dei rivolgimenti in questi paesi, noi sentiamo il fascino e l’attrazione per chi ha deciso ed è riuscito a cambiare il destino del proprio paese, della propria vita e del mondo intero. Perché se un battito d’ali ha conseguenze dall’altra parte del mondo, non possiamo ancora immaginare quali conseguenze avranno queste nuove rivolte arabe. Stiamo partendo da tante università d’Italia perché sentiamo un filo che ci unisce a queste rivolte, perché ci sentiamo di tessere una stessa trama da Londra a Tunisi, da Roma al Cairo.
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Oggi, appena arrivati, incontreremo gruppi di studenti e giovani tunisini, ragazzi che hanno cambiato la storia del loro paese, ma che vogliono anche cambiare la loro vita, lottano contro la disoccupazione, la precarietà e la mancanza di garanzie nella loro vita. Queste non sono solo delle leggere somiglianze: la nostra generazione vive una condizione comune è per questo che stiamo andando in Tunisia. Non andiamo solo per portare degli aiuti umanitari, non andiamo per imparare come si fa la “Rivoluzione”, stiamo andando in Tunisia per riconoscere la nostra condizione comune di generazione senza futuro. Nessuno di noi può andare avanti senza conoscere l’altro, nessuno di noi basta più a se stesso.
Incontreremo le donne che hanno attraversato le piazze delle rivolte, sperando di superare tutti i nostri blocchi e luoghi comuni sulla condizione delle donne nel mondo arabo. Ci faremo insegnare che cosa significa accoglienza nel campo profughi di Ras Jadir, dove vengono aiutato chi fugge dalla Libia. Incontreremo i laureati senza lavoro in sciopero della fame a Sidi Bou Zid e ci confronteremo su cosa significa frequentare un’università dequalificata che ti lascia in balia di un mondo del lavoro precario, mentre ingrossiamo le fila dei disoccupati. Oggi su giornali italiani Tunisia significa immigrazione clandestina e sovraffolamento di Lampedusa, sono già state dimenticate le settimane di gennaio e lo sforzo quotidiano dei tunisini per la costruzione di un paese migliore. Il rumore delle bombe della Libia sta comprendo le urla delle lotte che continuano dalla Siria allo Yemen, dall’Egitto alla Tunisia. Oggi, partendo per la Tunisia vogliamo far diventare il Mediterraneo un ponte e un luogo dove si muore in cerca di un vita migliore, perché la realtà è che i giovani tunisini scappano dalla disoccupazione e vengono verso l’Italia, ma i giovani italiani hanno iniziato ha scappare in fuga dalla precarietà verso altri paesi, e in questa corsa verso l’ignoto forse ci incontreremo a metà strada, per capire come smettere di fuggire, e forse allora sì che saremo uniti per la libertà.